Io sono un uomo.

Io sono un uomo

 

Io sono un uomo.

Quando son nato, mio nonno s’è congratulato con mio padre per aver avuto un figlio maschio: manco dovessimo continuare la dinastia dei Tudor;

ed anche con mia madre, per essere stata capace di aver saputo dare al suo uomo, un maschio.

Ho giocato coi Lego, con gli Action Men, coi Beyblade perché i bimbi devono giocare con quello, vestiti di blu perché è maschio per antonomasia.

Mi son fatto piacere il calcio perché tutti lo facevano, tutti i maschietti giocano a calcio: altro non è contemplabile, è malsano, sarebbe poco normale.

Alle elementari, alle femminucce alzavano le gonnelline rosa da comunione sotto al grembiule ma comunque

“I maschietti son fatti così, cosa ci possiamo fare?”: magari due schiaffi tra capo e collo, sia mai.

Un pomeriggio d’estate, stavo giocando alla “famigliola felice” coi miei cugini, l’aria calda del crespuscolo che muoveva le tende della sala.

Facevo il papà, mia cugina la mamma e l’altra la figlia ma ci serviva un bimbo maschio per essere la perfetta copia della pubblicità della Mulino Bianco e per questo ci siamo affidati ad un bambolotto sgualcito, con le dita mangiucchiate.

L’ho preso in braccio giusto per spostarlo un attimo da dove non doveva essere e subito mio padre: “Metti giù quel coso, è roba da femmine.”


E, per appunto, i maschi giocano coi maschi, le femmine con le femmine. Non ci sono mezzi termini né possibilità di scambio: è così da sempre.

Ricordo che ad un Natale, a quella stessa cugina, regalarono un ferro da stiro ed un kit per lavare il pavimento:

la classica accozzaglia di plastica scandente, scadente tanto quanto il cliché della femminuccia interessata, sin da piccola, all’arte della massaia.

Perché la mamma pulisce, lo deve fare lei, sì, proprio lei in quanto donna e necessariamente dovrai farlo anche tu, quindi meglio partire in quarta ed insegnarti il dovere del focolare.

Forse avevo diciassette anni quando mio papà mi prese i primi preservativi.

Mai nessuno ha ben pensato di frenarmi dall’uscire con diverse persone a distanza ridotta, quasi come se il maschio alpha debba riconoscersi proporzionalmente alle volte in cui copula.

Nessuno mi ha mai giudicato come “poco di buono” dopo essermi passato persone come se fossero mera merce d’acquisto;

tanto meno “sfigato” quando ho preso da primo l’iniziativa per un bacio, per una stretta di mano.

Nessuno demonizza il mio piacere sessuale, nessuno stigmatizza le mie scelte sentimentali.

Nessuno mi controlla i vestiti né la maniera con cui mi porgo al mondo: il palco è già mio per partito preso, per definizione, per diritto soggettivo.

Mai, mai mi hanno ripetuto che dovessi “valorizzarmi” o “farmi portare rispetto”: i maschi lo hanno già di per sé il valore di esserlo.

Soprattutto, quando sono per strada e vivo naturalmente e giustamente la mia vita come cazzo mi pare, non mi vengono suonati clacson,

né son soggetto a fischi di compiacimento se andassi in giro con le gambe scoperte, né vengo braccato per strada per non aver saputo avere lo sguardo giusto, la camminata giusta, un sorriso non ricambiato.

Anche perché, chi cazzo vi conosce e chi vuole farlo?

Mai e poi mai ho dovuto cambiare marciapiede, allungare la strada,

fermarmi addirittura per schivare o tentare di allontanare qualcuno di molesto per l’infima paura di poter essere disprezzato, agognato, soggetto ad una vergogna che non dovrei avere.

Mai sentito qualcuno etichettarmi come “coraggioso attivista” se girassi col petto nudo né qualcuno, a lavoro, si è mai permesso di regolamentare la maniera con cui mi presento:

certo, ho abbastanza buon senso da non presentarmi in gonna di paglia ed infradito in ufficio così come una donna potrebbe permettersi di mostrare un pezzo del suo ginocchio;

innanzitutto perché, se vi attirassero le ginocchia, avete problemi di psicosi ma secondo e soprattutto, mettessimo anche il caso che delle ginocchia fossero delle armi di seduzione,

rimangono ben amatissimi cazzi vostri dovervi reprimere.

E non lei in quanto donna con la gonna ma quanto voi, coi pantaloni e lo scroto al posto del cervello.

Non sono mai stato seguito di notte da delle auto che si fanno sempre più vicine,

né avuto mai la paura di prendere dei mezzi pubblici ed il pensiero di dover sopportare strusciate, mani che cadono casualmente, mani che vi metterei in faccia con allegate sei sedie di ghisa.

Se, in caso, dovessi mai essere io la vittima di una violenza, sicuramente nessuno penserebbe al modo in cui ero vestito,

al modo in cui ho guardato, ho scrutato, ho battuto le ciglia, ho sistemato i capelli, di che lunghezza fossero le maniche della felpa o, meglio ancora, a nessuno verrebbe mai in mente di dirmi che me la sono cercata.

Non sarei mai l’inadeguato, lo sbagliato, la vittima che meritava il proprio carnefice.

Se tra vent’anni ricevessi una promozione a lavoro, i miei amici non si sognerebbero mai di dirmi che l’ho avuta grazie alla serie di pompini sottobanco: crederebbero nelle mie capacità, nel mio valere in quanto persona.

Non mi hanno mai detto niente sulla lunghezza dei miei capelli né me lo direbbero se non mi depilassi, non pulissi la cucina dopo aver cucinato perché i maschi son grezzi,

i maschi son pezzi di culo espiantati da un rutto di Dio senza cultura ed educazione, i maschi non piangono, i maschi sì e le femmine no, i maschi.

Ma soprattutto, le persone del mio sesso non vengono abusate con una media di una su tre in Italia. O, addirittura, le persone del mio sesso non vengono stuprate ogni 12 secondi come in Brasile.

Non svalorizzate il dolore che non conoscete.

 

Andrea Perticaroli, Io sono un uomo

 

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Io sono un uomo
Matheus Ferrero

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